Ivan Catalano da bambino amava sfogliare gli album fotografici dei suoi genitori, in particolare quelli del loro passato da emigrati, da ragazzo inizia a fotografare le processioni religiose nella sua città. Dopo, due incontri: il primo con i disegni dell’architetto Aldo Rossi e il secondo con una fotografia di Luigi Ghirri, scoperta nel retro di una copertina di un album dei CCCP. Il suo lavoro nasce utilizzando il medium fotografico prima in maniera inconsapevole e solo in seguito maturando consapevolezza riguardo al mezzo stesso e al suo linguaggio.
Egli vive la pratica del fotografare come un rituale, partendo dal luogo dove abita o le città in cui ha vissuto. Compongono il tracciato, nel quale svolge il suo lavoro, l’ordinario, il quotidiano, la “qualsiasità”: caratteristiche scelte non in modo arbitrario ma perché gli sono vicine e fanno parte del suo vissuto; con la prerogativa di non fare privilegi su cosa deve o non deve essere fotografato ma, piuttosto, da sempre si interessa all’abitare, alle sue trasformazioni ed alle tracce che incontra, facendo però attenzione a non lasciare le proprie.
Vicino all’esperienza dei fotografi di “Viaggio in Italia”, che trent’anni fa hanno posto le basi della nuova fotografia di paesaggio italiana, adottando la “sospensione del giudizio”, evitando di enfatizzare dei soggetti a discapito di altri, ricercando una “visione” semplice, non forzata, antieroica e soprattutto non retorica.
Lontano dal pensare la fotografia come mezzo oggettivo per descrivere, per raccontare e comunicare la realtà, persegue l’idea che fotografare sia non un fatto di comunicazione, ma in primo luogo un “fatto privato”, la conoscenza del mondo, la continua sorpresa di guardare le cose.
Dunque, fotografando dentro casa e “dietro casa” si svolge gran parte della sua ricerca, vivendo lo spazio come luogo dell’incontro, “del puro accadere, dell’inciampo”, dove s’incontrano delle cose, dei luoghi, delle persone, delle figure.